Il robot

IL ROBOT   1994-07-11

E così, dopo mille e mille anni di studi, di ricerche, di prove di ogni tipo, dopo grandi fallimenti, delusioni e piccoli progressi, c’erano riusciti! una fu­sione totale, indistinguibile fra l’uomo e il robot!
Fin dai primi esperimenti il loro scopo era stato quello di creare l’es­sere perfetto: un corpo umano (con la sua duttilità, le sue molteplici po­sizioni, diversità, movimenti) con un computer per cervello, con tutte le capacità mnemoniche e di elaborazione che ne derivavano. Insomma un robot il più possibile simile all’es­sere umano nell’aspetto e nelle movenze.
I passi ovviamente furono graduali. Un gradino alla volta si arrivò alla quasi perfezione: gli androidi ul­timo modello non erano esteriormente distinguibili dagli esseri umani. A patto però che portassero gli occhiali scuri.
Infatti, malgrado l’altissimo livello tecnologico raggiunto, non si era ancora riusciti a copiare quella cosa fantastica che è l’occhio umano! Non tanto nella sua forma o nel colore dell’iride, perfino le ciglia erano perfette… Ma lo sguardo, l’espressione! quel che di speciale che ti poteva parlare anche se la voce taceva. Se le labbra e l’intero viso pote­vano atteggiarsi a simulare un sorriso, gli occhi restavano fermi, freddi e distanti. L’anima non si poteva imitare, in quei robot non c’era! e lo si leggeva nei loro occhi.
“Quelli che decidono” misero questi automi nei posti di comando più importanti, a capo di grandi industrie e di enti di studio, a dirigere comunità di innumerevoli persone o gruppi di sofisticatissime macchine; essi potevano essere scam­biati per il manager più preparato, il capo insostituibile, lo studioso mi­gliore e, all’occasione, il più esperto fra i comandanti militari.
Dopo mille e mille anni di studi si era arrivati dunque a “realizzare l’irrealizzabile”.
Ma gli uomini, malgrado fossero a conoscenza degli enormi vantaggi che avevano nell’avere simili esseri come guide, un po’ alla volta dimo­strarono di non poter tollerare la presenza (e soprattutto il comando) di quelli che restavano pur sempre delle macchine.
La presa di posizione fu graduale ma irreversibile; quello che era stato giudicato il più grande ritrovato della scienza e della tecnica si stava rivelando un fallimento. E così, dopo che si era fatto di tutto per creare quell’automa così perfetto, l’uomo gli rinfacciava e gli negava il diritto di assomigliare a sé! Apparenza! solo di questo si trattava in fondo. L’uomo, anche dopo mil­lenni dall’inizio dell’era tecnologica, badava di più all’apparenza!
E seduti tutti attorno ad un tavolo, “quelli che contano e che decidono” si consultarono per trovare una soluzione. E dopo mille e mille anni di studi e di prove… si decise di tornare in­dietro! Non del tutto, ovvio, ma via la pelle morbida, via ciglia e capelli, tutto sostituito da un involucro rigido, più o meno lucido, un qualcosa di chiaramente innaturale.

Qualche tempo dopo, in un giorno qualsiasi in una località non specifi­cata, come avveniva di consueto, una scolaresca venne portata a visitare una grande industria perché i bambini potessero rendersi conto di persona come funzionavano i vari apparati di produzione.
Visitarono gli enormi locali dove erano situate le catene di montaggio per la pulizia, la conservazione e la confezione di prodotti agricoli. Il tutto era ovviamente meccanizzato; si passava dalla materia prima all’im­ballaggio, perfino al carico degli automezzi per la distribuzione nelle va­rie località, senza che nessun uomo venisse mai a contatto con il prodotto. Visitarono poi locali dove si controllava ogni passaggio e gli studi per la progettazione di nuovi prodotti, confezioni o spot pubblicitari per essere al passo con il marcketing, il tutto ovviamente fatto attraverso una serie innumerevole di computer.
I bambini e i loro accompagnatori passavano silenziosi lungo i percorsi indicati ascoltando attenti le spiegazioni. Ogni tanto, qua e là, qualche persona in camice bianco lanciava loro un’occhiata furtiva e si fingeva indaffaratissima in qualcosa di inspiega­bile.
Alla fine della visita ai piccoli ospiti vennero offerti pasticcini bibite e grandi sorrisi; in­fine venne loro spiegata l’utilità e il ruolo indispensabile della pre­senza umana nella sovrintendenza e nella direzione del lavoro.
A un certo punto una bimba, stanca di quello sproloquio, si staccò dal gruppo.
Era la più giovane, o forse lo sembrava per via del suo aspetto molto mi­nuto. Il visino era grazioso, illuminato da un dolce sorriso e dagli occhi dall’espressione vispa e intelligente; i suoi modi erano gentili ed edu­cati.
Aveva cominciato con il guardarsi attorno osservando quelle cose belle che adornavano il salone per il ricevimento degli ospiti, poi senza accorger­sene si era messa a gironzolare qua e là; era passata agli adiacenti lo­cali per il riposo e il ristoro degli operatori umani, poi in un’altra stanza piena di bottoni e luci colorate che prima non avevano visto, poi in un’altra, un’altra ancora… finché non si accorse con un sussulto di es­sere sola e di non udire nient’altro che il ronzio degli onnipresenti com­puter. Provò a chiamare pianino pianino, poi un po’ più forte, e intanto pen­sava che se l’avesse sentita qualcuno della sorveglianza, l’avrebbe senz’altro sgridata e forse anche punita. Si rimise in cammino guardandosi con circospezione attorno cercando di ritrovare la strada da sola.
Non si spaventò quando vide avanzare verso di lei “quell’enorme coso”. Ne aveva visti altri in giro per la fabbrica; avevano spiegato ai piccoli vi­sitatori che quelli non erano altro che computer altamente sofisticati, e se avevano una forma vagamente umana era solo per poterli meglio utiliz­zare, erano in grado di parlare, camminare, muovere le braccia e le mani e non potevano in nessun modo fare del male alle persone. Le altre spiega­zioni non le aveva comprese bene, ma adesso comunque non le sarebbero ser­vite a niente, oltre tutto, a lei quel coso non solo non faceva nessuna paura ma anzi, le piaceva proprio.
Il gigante di metallo le si avvicinò con calma e senza far rumore. Giunto a pochi passi si chinò un pochino; la sua voce era grossa ma era molto, molto gen­tile.
– Ti sei allontanata dai tuoi compagni? non li ritrovi?
“E’ proprio intelligente! ha capito tutto!” pensò la piccola, “ma se adesso mi sgrida?”
Ma fu solo un pensiero veloce perché al suo timido cenno di assenso, il mastodontico essere meccanico si era chinato con la testa quasi per adegu­arsi alla sua statura e ora lei poteva vedere quella che era la “faccia” del robot, e quello che vedeva era proprio bello. I lineamenti forgiati nel metallo erano una vaga riproduzione di un viso e delle linee ondulate imitavano i capelli.
“E’ proprio buffo” pensò. Ma quello che le piacque di più furono quelle cose che stavano al posto degli occhi: due aperture con l’iride sostituita da un qualcosa che si spostava di qua e di là a seconda di dove l’essere guardava, e quelle fessure a forma oblunga conferiva al tutto una specie di sorriso. O almeno, a lei pareva così! E gli fu subito simpatico.
La bambina era gentile con tutti e in modo del tutto naturale si comportò nella stessa maniera anche col grande uomo di bronzo.
– Puoi aiutarmi? – chiese con la sua vocetta squillante aggiungendo su­bito – per piacere, signore?
Sì, sembrava proprio che quel visone sorridesse. – Ma certo, signorina. – E scherzava pure!
E la bimba tese la mano verso quella di metallo che si protendeva ferma verso di lei, ne guardò stupita e felice le dimensioni sproporzionate, e quindi la sua manina letteralmente sparire in quella del gigante.
Il metallo non era affatto freddo come aveva previsto, anzi, dovendo am­mettere con sé stessa che prima, essendosi trovata sola aveva avuto un po­china di paura, ora quel contatto le diffondeva un piacevole calore e sicu­rezza. S’incamminarono assieme lungo un dedalo di stanze e corridoi e intanto, quasi che l’automa avesse compreso il precedente stato d’animo della bambina, cominciò a porle delle domande e ascoltare con evidente interesse le risposte (come in un discorso fra due persone grandi!) cosicché parlando, ogni residuo di timore fu del tutto fugato. Quando poi gli disse di essere un po’ stanca, la fece sedere su un suo braccio (proprio come la teneva il suo papà!) le parve di essere in alto in alto. Si sentiva proprio felice in quella nuova strana situazione.
Percorsero così chiacchierando allegramente altri corridoi, alla fine dei quali riconobbe la porta che immetteva nel salone dove ancora si trovavano i suoi compagni.
– Ora puoi proseguire da sola. Forse nessuno avrà notato la tua assenza e se non ti vedono rientrare non avrai nessun rimprovero per esserti allonta­nata. – Le disse il robot poggiandola delicatamente a terra.
Era proprio un vero amico! e lei si sentiva in dovere di contraccambiare tante cortesie e premure. Si frugò nelle tasche e trovò una piccola pietra lucida variamente colorata a cui il papà aveva praticato un foro per po­terci passare una cordicella e farne così una collana. A lei quella pietra piaceva molto e pensò che non ci potesse essere dunque regalo più bello per un amico. Gli chiese di abbassarsi e gliela legò attorno al grosso collo. Il robot la ringraziò e le promise che l’avrebbe sempre portata con sé.
La sua voce nel salutarla sembrava triste e piena di rimpianto.
La bambina varcò la soglia con un nodo al cuore, ma seguendo le istru­zioni dell’amico non si girò indietro. Nessuno l’aveva vista e così la passò liscia.

Né la bimba né nessun altro seppero mai cosa era successo al grande au­toma di metallo. Col suo udito finissimo aveva sentito da grande distanza la vocina chia­mare ed era accorso in aiuto. Una cosa stranissima però, una cosa che lui stesso non era stato in grado di giustificare, era accaduta quando la bimba aveva chiuso la manina nella sua. Un calore lieve ma magnifico lo aveva invaso per tutto il corpo e aveva sentito che “qualcosa” di non identificabile, ma molto piacevole, gli si era chissà come diffuso dentro.
Si studiò da solo, valutò bene il tutto, poi catalogò nella sua meccanica memoria ciò che gli era accaduto sotto la voce: emozioni di simpatia e di amicizia.
Non si stupì quindi quando di li a poco fu “realmente” addolorato nel la­sciare la bambina e triste nel dirle addio.
E quello fu forse l’unico robot antropomorfico mai esistito che se ne andasse in giro con un “gioiello” al collo: una collana fatta con una pie­truzza colorata e una funicella.
Molti a dire il vero si chiesero cosa fosse, ma pensando a un segno di identificazione o comunque a qualcosa che non lo interessava, nessuno si prese mai la briga di indagare. E se nessuno chiese niente, il robot non diede ovviamente nessuna spiegazione.
Qualcuno degli operatori, i più capaci, notarono però qualcosa di strano che talvolta appariva negli “occhi”, accadeva specialmente in concomitanza con le visite delle scolare­sche più giovani. Era una specie di luccichio, come… uno sprazzo di vita… Sembrava quasi che il robot sorridesse.

Competenze

Postato il

ottobre 2, 2017

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