Premio Letterario Internazionale “Città di Lerici” 2003 / Premio Speciale della Giuria
L’INTERROGATORIO 1993-03-10
E mi chiusi dentro l’armadio, per lasciare il mondo cattivo fuori.
Nella semioscurità della stanza la sagoma a terra si intravedeva appena; stesa scompo-stamente, di traverso, quasi a tagliare in obliquo il riquadro sul pavimento formato dalla flebile luce che filtrava dalla finestra semichiusa; gli occhi sbarrati a fissare un angolo lontano immerso nel buio senza vederlo. La capigliatura arruffata, i vestiti stracciati in più punti, la posizione stessa in cui giaceva, tutto faceva pensare a una colluttazione finita in maniera tragica.
La luce si accese di colpo e fu come se il silenzio diventasse pesante. Nell’oscurità, potevo fingere che non fosse avvenuto nulla, ma ora, sotto la fredda luce del grande lampadario, l’evidenza non si poteva evitare.
La stanza era grande e piena di mobili; era il soggiorno di un appartamento di una casa antica, ma i frequenti restauri e l’arredamento di buon gusto la facevano sembrare nuova e molto accogliente. Ma ora pareva che tutto fosse freddo, ostile… la luce, il mobilio, perfino la tiepida aria della sera che entrava dalla finestra.
Mi sembrava che l’unico rumore fosse quello del mio cuore che incessantemente martellava con innaturale velocità e forza nel mio petto. Mi sembrava impossibile che solo io lo udissi.
Poi cominciarono le domande, brevi, secche, quasi sassi lanciatimi contro per colpirmi prima ancora di giudicarmi.
– Vieni fuori! Sei stata tu? Perché?
Ammutolita fissavo il lucido pavimento piastrellato, e il mio silenzio era quasi una ammissione di colpevolezza. Ma la paura mi attanagliava lo stomaco e mi chiudeva la bocca rendendomi incapace di rispondere e quasi di respirare.
NO! Non ero stata io! Ma chi mi avrebbe creduto? Ero sola! Sola ora, come lo ero stata prima. Sola con me stessa, la mia paura, il mio cuore martellante, con la consapevolezza che nessuno era presente per difendermi.
SI’, L’ODIAVO! E odiavo Mariella! e tutti lo sapevano.
– Perché? – Che domanda superflua! Conoscevano i miei sentimenti e non ponevano minimamente in dubbio che io fossi la colpevole.
Certo, io sapevo cosa era successo, e come, e quando, e soprattutto chi era stato. Ma chi poteva credermi? Io l’odiavo, e lo sapevano. E ora ero sola, sotto la luce, nel mezzo della stanza, e subivo quell’ingiusta inquisizione.
– Non sono stata io! Lo giuro!
– Non giurare! non siamo in uno di quei processi che vedi alla televisione.
No? e queste domande? e questo tono?
E allora, radunando tutte le mie forze, raccontai ciò che era accaduto, tutto d’un fiato, senza interrompermi, quasi sicura che non mi avrebbero creduto, ma con la speranza, più che la convinzione, che la verità avrebbe trionfato su ogni pregiudizio, come tante volte mi avevano insegnato fin dai primi anni di vita e come sempre avveniva nei film.
– Ero sola, stavo seduta sul divano senza fare niente. Pensavo! Poi è arrivato lui. Ho avuto paura. Ho sempre avuto paura di lui. – La voce sta per strozzarsi, no! devo continuare! se mi fermo mi faranno altre domande e forse non saprò rispondere.
– E’ venuto avanti piano, in silenzio. Mi sono accorta della sua presenza solo quando è arrivato proprio vicino.
Era grande quel cane, grande e brutto! L’odiavo e odiavo la tremenda paura che mi incuteva. Era cattivo! ogni volta che mi si avvicinava ringhiava e mi mostrava le zanne bianche.
– Ha abbaiato forte facendomi trasalire e urlare. – Non sapevo che era in casa o non sarei rimasta lì da sola, neanche se per pochi minuti.
Era il cane di Mariella, e io odiavo lui, la sua padrona e quella sua stupida brutta grande bambola. Gliela avevano regalata alcuni giorni prima, per il suo compleanno e da allora non aveva fatto altro che passarmi avanti e indietro con la sua bambola in braccio, lodandone ogni particolare, ogni bellezza. Sì era bella davvero! voleva farmi invidia e ci riusciva in pieno.
– Il cane mi è venuto addosso abbaiando forte e io ho avuto tanta, tanta paura.
Mariella aveva lasciato la bambola sul divano e io istintivamente me ne ero servita per farmi scudo. Il cane l’aveva azzannata con ferocia e trascinata per la stanza; poi l’aveva sbattuta di qua e di là e tenendola fra i denti con le zampe aveva strappato i vestiti. Forse era geloso anche lui, per tutte le attenzioni che la sua padroncina dedicava al nuovo giocattolo trascurandolo. Poi l’aveva abbandonata lì, di traverso sul riflesso della finestra sul pavimento.
E io avevo visto tutto dalla fessura lasciata fra le ante dell’armadio dove ero corsa a nascondermi. A otto anni basta un posticino piccino piccino, e rannicchiata tra borse e cappelli avevo atteso il ritorno della mamma assentatasi per pochi minuti durati un’eternità.
Ecco, avevo detto tutto, e era la “vera verità”. Forse non mi avrebbero creduto, forse mi avrebbero punito. Non ero stata io, ma a volte il mondo dei grandi era incomprensibile e brutto, e prima che decidessero cosa fare, corsi ancora nel mio rifugio buio all’interno del grande armadio, lasciando tutto il mondo cattivo di fuori.
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